Alla distinzione stessa tra lingue «naturali» e lingue «artificiali» mi sembra difficile che dagli stessi glottologi possa venire attribuito alcun senso preciso e scientifico, quando essi ammettono che nella formazione e nello sviluppo di qualsiasi linguaggio, per quanto «naturale» e non colto, una parte non trascurabile è pur sempre da attribuire ai fattori volontari e individuali che ne determinarono i successivi adattamenti alla sua funzione di strumento per esprimere e comunicare determinati sentimenti o idee.
Sarebbe strano del resto che mentre l’obbiezione della artificialità non è considerata valida per escludere dal campo della glottologia e della semasiologia lo studio dei «gerghi» propri delle classi più infime della società, essa dovesse aver vigore soltanto per il caso di quelli che, nella peggiore ipotesi, ci contenteremmo di veder classificati come dei «gerghi» ideografici, propri ai cultori delle più progredite tra le scienze.
Accennerò infine a una considerazione, di indole tutto affatto pratica e attuale, che mi ha fatto parere tanto più opportuno richiamare l’attenzione dei filologi sui caratteri, per così dire, linguistici dell’algebra.
Va diventando sempre più un luogo comune, nelle discussioni sull’ordinamento degli studi nelle nostre scuole secondarie, il lamento sui danni derivanti, allo studio delle lingue antiche o moderne, dall’impiego di metodi troppo «grammaticali» o «filologici», dalla troppa parte, cioè, che è fatta ordinariamente, nei primi stadi dell’insegnamento, all’enumerazione delle regole grammaticali, in confronto allo scarso tempo e alla minor cura dati invece agli esercizi di interpretazione e di conversazione.
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