Quanto poco questa interpretazione sia conforme agli intendimenti e alla portata della dottrina originariamente designata dal Peirce col nome di «pragmatismo», non è difficile scorgere.
La regola metodica enunciata dal Peirce, lungi dall’essere diretta a rendere più «arbitraria», più «soggettiva», più dipendente dal parere e dal sentimento individuale, la distinzione tra opinioni vere e opinioni false, ha invece uno scopo perfettamente opposto.
Essa non è altro in sostanza che un invito a tradurre le nostre affermazioni in una forma nella quale ad esse possano venire più direttamente e agevolmente applicati quei criteri appunto di verità e falsità che sono più «oggettivi», meno dipendenti, cioè, da ogni impressione o preferenza individuale; in una forma cioè atta a segnalare, nel modo più chiaro, quali sarebbero gli esperimenti, o le constatazioni, alle quali noi, od altri, potremmo e dovremmo ricorrere per decidere se, e fino a che punto, esse siano vere.
L’unico senso nel quale il «pragmatismo» possa considerarsi avere un carattere «utilitario», è in quanto esso conduce a scartare un certo numero di questioni «inutili»: inutili, però, non per altra ragione che perché esse non sono che delle questioni apparenti, o, più precisamente, non sono delle questioni affatto.
Quando, per esempio, ci troviamo in presenza di due asserzioni, e non siamo in grado di assegnare quali siano le esperienze particolari che dovrebbero verificarsi perché una di esse risulti vera e l’altra no, il domandarsi quale di esse sia vera non è propriamente proporsi una questione: le due asserzioni debbono in tale caso, secondo il Peirce, essere considerate semplicemente come due modi diversi di dire una stessa cosa.
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