Che le asserzioni concernenti l’esistenza degli oggetti si riducano, in ultima analisi, ad asserzioni sulla possibilità di date esperienze, era già stato, fino a un certo punto, riconosciuto da Platone. Vi è più di un passo dei suoi Dialoghi che può considerarsi come una anticipazione della dottrina sopraesposta del Berkeley: basti citare quel passo del Sofista, ove si afferma che «una definizione adatta a caratterizzare le cose che esistono è quella che consiste nel dire che esse sono delle potenze o delle capacità» [dunàmeis] (Soph., 437 E).
Il caso dei giudizi sull’esistenza degli oggetti, e quello dei giudizi sulla loro posizione o sulla loro forma, non sono i soli nei quali si manifesta la tendenza delle affermazioni implicanti riferimento al futuro a presentarsi sotto la forma di giudizi sulla esistenza presente.
Si trovano in questo stesso caso anche tutte le affermazioni nelle quali, a un oggetto, vengano attribuite delle «qualità» che (come, per esempio, la dilatabilità, l’elasticità, ecc.) consistono nel suo modo di comportarsi o di reagire quando venga sottoposto a date azioni, o quando venga a trovarsi in determinate circostanze.
Per esempio, la frase: «il tale oggetto è fragile», per quanto si presenti come una asserzione sullo stato attuale dell’oggetto di cui si parla, non è tale che in apparenza. Nonostante la forma grammaticale essa è un’asserzione che si riferisce, non al presente, ma al futuro; essa esprime, cioè, non che qualche fatto accade o è accaduto, ma che qualche fatto accadrà o accadrebbe, se l’oggetto di cui si tratta venisse, per esempio, ad essere urtato o percosso.
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