L’applicazione del suddetto criterio ai giudizi riguardanti la esistenza di altre «coscienze», oltre la nostra, presenta tuttavia una difficoltà che è opportuno qui esaminare.
La convinzione, che ha ciascun uomo, dell’esistenza di altre «coscienze» oltre la propria, non può certo dirsi basata su alcuna constatazione diretta.
Se ci viene domandato quali siano le ragioni per cui crediamo, per esempio, che un bambino soffre quando piange, noi non possiamo rispondere in altro modo se non col segnalare la somiglianza tra questo suo atto e certi atti nostri che sappiamo connessi con la presenza «in noi» di qualche dolore.
In altre parole, la esistenza di coscienze «altrui» ci risulta da un certo numero di sintomi, rappresentati da speciali modi di comportarsi di certi «oggetti» (i corpi «animati») in certe circostanze; ed è innegabile che tali reazioni costituiscono la sola prova che possiamo addurre della suddetta nostra convinzione.
L’ammettere che esistano altri esseri «coscienti» oltre noi stessi si presenta, quindi, come una «ipotesi» alla quale noi ricorriamo per spiegarci certi fatti facenti parte della nostra esperienza.
Che questa ipotesi non sia la sola immaginabile, che cioè i fatti ai quali essa si riferisce possano trovare una spiegazione anche in altre ipotesi di genere affatto diverso, e non implicanti l’esistenza di altri esseri «coscienti» oltre noi stessi, ci è provato dalla presenza di dottrine filosofiche nelle quali a queste altre ipotesi si fa appunto ricorso.
È nota, per esempio, la teoria cartesiana degli animali-automi, teoria che, pure essendo, nella mente del suo autore, diretta a fare apparire più netta e più recisa la distinzione tra gli uomini e gli animali, non potrebbe venire accettata pel caso di questi ultimi se non da chi ne ammettesse almeno la possibile applicazione anche al caso degli uomini.
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