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      Ora è chiaro che il principio suddetto, così interpretato, per quanto diventi irrefutabile, non ci dice più niente affatto, poiché, davanti a qualsiasi fatto o evento, ci è altrettanto difficile decidere se esso sia un effetto quanto di decidere se esso abbia una causa. Se lo si interpreta invece come esprimente che ogni fatto, o evento, ha una causa, esso ci dice allora qualche cosa, e certamente qualche cosa d’importante a sapersi, ma cessa nello stesso tempo di essere evidente e «necessario», e le eccezioni ad esso cessano allora affatto dal sembrare «a priori» impossibili o assurde.
     
      A cause analoghe è da attribuire anche il sorgere e il mantenersi dell’opinione, secondo la quale ai principi della geometria spetterebbe non solo un maggior grado di certezza, ma in certo modo una certezza di genere e di provenienza differenti da quelle di cui godono le cognizioni che quasi per disprezzo sono chiamate «empiriche», o di origine puramente «sperimentale».
      Il fatto che in geometria, come in qualunque altra scienza a tipo deduttivo, siamo costretti a prendere per punto di partenza supposizioni che non possono trovarsi perfettamente realizzate in alcun caso concreto, rappresentando solo delle semplificazioni ideali delle forme che l’esperienza ci presenta, fa sì che le proposizioni fondamentali della scienza assumano l’aspetto non tanto di asserzioni relative alle proprietà che possiedono, o sono supposte possedere, le cose di cui parliamo, quanto piuttosto di convenzioni mediante le quali noi precisiamo dei concetti, e limitiamo la regione entro la quale intendiamo dar corso alle nostre indagini.


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Scritti filosofici
di Giovanni Vailati
pagine 483