Asserzioni che come le precedenti, e per le stesse ragioni delle precedenti, presentano un aspetto illegittimamente paradossale, si riscontrano anche nel campo delle ricerche filosofiche, ove è da notare l’influenza che esse hanno esercitata nell’indurre non solo i profani o i seguaci e ripetitori di dottrine filosofiche, ma spesso gli stessi filosofi ad attribuire alle loro teorie una portata molto più radicale e rivoluzionaria di quanto non competesse loro effettivamente.
È avvenuto, cioè, assai spesso che gli iniziatori di una nuova teoria filosofica, e non solamente i loro avversari, si siano persuasi (o, ciò che è quasi lo stesso, si siano espressi come se fossero persuasi) che le loro analisi e le loro nuove definizioni fossero per rovesciare dalle fondamenta tutto il sistema delle asserzioni che venivano enunciate mediante i termini da loro analizzati o diversamente definiti.
I tentativi, per esempio, di precisare o analizzare i criteri che stanno a fondamento di distinzioni tanto importanti come quella fra realtà e apparenza, fra causa e successione, tra azioni volontarie ed involontarie, tra giustizia e utilità, ecc., gli sforzi di formularli, di ridurli alla loro espressione più semplice, di renderli applicabili con maggior sicurezza ai casi ambigui ed incerti, furono interpretati come miranti a scalzare dalle basi le distinzioni stesse che essi tendevano ad approfondire, come degli attentati a distruggerle od a svelarne l’insussistenza.
Fu del tutto inutile che Berkeley si desse la pena di persuadere i suoi avversari che era la loro teoria, e non la sua, che dava giuoco alle obbiezioni degli scettici contro la «realtà del mondo esteriore»; fu inutile che egli dichiarasse a sazietà che lo scopo che egli si proponeva era semplicemente di chiarire e determinare ciò che si intende dire quando si afferma che le cose «esistono».
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Berkeley
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