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      Senza costoro, senza agenti di pubblica sicurezza, senza soldati, è certo che io non sarei qui a cucire insieme i brandelli sanguinolenti della pagina che ha iniziato le giornate di Bava Beccaris, il vecchio rimbambito che nasconde la testa nella sabbia come la testuggine per non udire le maledizioni che imperversano intorno al suo capo.
      Alla mattina, come tutte le altre mattine, i grandi stabilimenti dei dintorni di Ponte Seveso, spalancarono i portoni e i proletari vi entrarono a frotte per non uscire che a mezzogiorno. Nelle fabbriche si era lavorato con disattenzione e si era chiacchierato molto sugli avvenimenti. In via Galilei, il contingente dei lavoratori, come il solito, ingrossava di minuto in minuto. Poiché vi si fermavano come negli altri giorni, quelli del Pirelli, quelli del Grondona, quelli dello Stigler, quelli del Vago, quelli dell'Elvetica e quelli di altri stabilimenti vicini, così non era una meraviglia se si vedeva in quella via e nelle adiacenze una massa nera di diecimila persone.
      In mezzo a tanta gente che discuteva, alcuni operai e parecchi ragazzi distribuivano il manifesto pubblicato la sera prima dal partito socialista, manifesto redatto dalla penna turatiana che sentiva il momento e mandava in piazza la protesta d'"intonazione-repubblicana", come dissero il Secolo e L'Italia del Popolo. Ma per gli agenti non educati all'agitazione costituzionale e resi prepotenti dall'incoraggiamento dei superiori, un semplice foglio volante che riassuma la condizione miserabile del proletariato diventa una perturbazione pubblica, un delitto.


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I cannoni di Bava Beccaris
di Paolo Valera
pagine 302

   





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