Sono in giro come un matto. Non ho direzione. In corso Magenta vedo altri perduti che vengono alla mia volta e io li evito svoltando in via San Giovanni sul Muro. Al margine del vicolo dello stesso nome sono due cenciose della bassa prostituzione che aspettano il gozzovigliatore che faccia guadagnar loro il morsello dell'esistenza. Sono sudicione che fanno ribrezzo come faceva ribrezzo la Gervasa, prima di crepare di svaccamento fra le gambe del beccamorto.
Il teatro Dal Verme è chiuso, la chiesuola più in giù, lungo il marciapiede opposto, è chiusa, le ultime imposte si chiudono. Non si vede nulla e si sente che lo spavento è nelle abitazioni e nella strada. Non smetto di camminare. Passo un'altra volta al Largo Cairoli. L'Eden traduce il momento. È completamente vuoto. Gli artiglieri sono come sull'attenti.
Un altro ran ran rapido, precipitato, si perde via come in fondo a un bosco. Che c'è? Cosa c'è? Si combatte? La guerra civile è nelle vie? Mi passa per la schiena un brivido.
Sono in piazza Castello, dal lato di Porta Garibaldi. Mi è stato detto che il quartiere popolare è già tutto in faccende per le barricate. Ran, ran, ran! Cerco col naso e con gli occhi l'ombra del fumo delle fucilate e trovo Vincenzo Maresti, col suo cappello nero, floscio, piatto, a larga tesa, piantato sull'occhio, con la sua giacca accarezzata alla schiena con la duttilità del panno che non fa pieghe, con le sue gambe lunghe lunghe, con quella sua faccia abbronzata anche d'inverno. Senza tirar fuori le mani dalle tasche mi assicura che in Porta Garibaldi c'è fermento.
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