La paura degli altri era il loro coraggio. A pochi passi di distanza si uccideva e loro si imbottivano di camicie, di mutande, di merletti, di cianfrusaglie, di quello che capitava loro tra le mani. Ho veduto uno di quei ragazzotti ritornare indietro a raccogliere uno degli ombrelli caduto dalla vetrina dei fratelli Guarnaschelli, almeno se non ho scambiato una bottega per l'altra, come se si fosse trattato di roba sua. Il ragazzotto lo raccolse e senza affrettare il passo se lo trascinò dietro come uno a zonzo, svoltando nella via che conduce in piazza di Sant'Alessandro. Era in lui l'imperturbabilità di Gavroche, quando involava la giberna di cartucce ai soldati per portare la munizione ai "camerati" sulla barricata.
A destra il pam! pam! degli spari si era come allontanato. Pareva che i soldati facessero fuoco marciando verso il Carrobbio. Anche la caduta dei coppi non era più così fracassosa e tempestosa. Tendendo l'orecchio udivo che si era andata rallentando, come se il fucile avesse diminuito il numero dei combattenti sui tetti. Qualche tegola però si rompeva ancora sul selciato con rumore. Mi arrischiai a passare dall'altra parte mettendomi colle spalle al pilastro dell'arco del palazzo chiuso che porta il numero ventinove, con la faccia un po' protesa per vedere che cosa avvenisse dalla parte opposta. Ma c'era l'angolo di via della Palla che impediva ai miei occhi di andare oltre. Passando di corsa ho potuto convincermi che prima di arrivare al Carrobbio la battaglia a tegole e a palle di piombo doveva essere stata disperata.
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