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      Il mio compagno all'ufficio di matricola è stato castigato stamane con dieci giorni di camicia di forza. La sua mancanza era grave. Aveva dato uno schiaffo a un collega che lo aveva accusato di poltroneria in questi giorni che non abbiamo avuto tempo neanche di dormire! Era qui con me da diciannove mesi. Lavorava come un negro ed era forse, tra noi, il più intelligente. Dopo un semestre di tirocinio gratis il suo "stipendio", per un lavoro di diciotto ore sulle ventiquattro, era di dodici lire il mese. Aspetti a dire che non c'era male. Perché il governo, sulle dodici lire guadagnate dal detenuto, se ne prende sette e venti. Non ho mai capito perché il governo si trattiene sui guadagni dei carcerati il sessanta per cento. Per me è una truffa. E lo dirò sempre, anche se si tenterà di convincermi del contrario, come si è già fatto, mettendomi nella camicia di forza. Rubare al detenuto è il più delittuoso dei delitti. Non le pare?
      La camicia di forza è di tela grossolana come quella delle brande dei soldati e va giù fin quasi alle ginocchia. Gli occhielli per stringervi il condannato al supplizio corrono per il dorso da una estremità all'altra. Le maniche non hanno uscita per le mani. Il supplizio maggiore è intorno al collo. È una tela rigida che lo sega. Se le guardie incaricate di chiudervi l'individuo non sono umane, la camicia di forza diventa una vera tortura. Io credevo di non arrivare alla fine. Vi respiravo con una fatica rantolosa e lo stringimento mi dava una molestia che mi faceva impazzire.


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I cannoni di Bava Beccaris
di Paolo Valera
pagine 302