La sua veste talare ambrosiana e il suo paltò di panno nero sentivano il bisogno di parecchie spazzolate. Indossava la veste, cinta dalla fascia di seta nera, dal giorno in cui dieci tra carabinieri e soldati di linea entrarono nella casa paterna di Filighera ad arrestarlo. Il suo paltò polveroso era stato buttato nell'angolo della cella dal momento che vi era entrato.
L'avvocato Bortolo Federici, noto a molti come repubblicano, attirava l'attenzione di parecchi per il suo cappello Oberdan nero, sopra un "completo" caffè scuro. Zavattari era abbattuto, dimagrato, colle guance infossate e biancastre e con le mani che tremavano come se avesse avuto la febbre. A uno degli arrestati, che aveva dato il buon giorno, rispose che era ammalato, gravemente ammalato e che, se non lo si lasciava andare presto, sarebbe morto in prigione. Fu una nota che diffuse un po' di tristezza in coloro che gli erano vicini. I carrettoni che li portavano al Castello erano nicchie che obbligavano gli ammanettati a stare con le labbra ai fori della respirazione.
Smontarono nel cortile ducale pallidi come cadaveri. Il primo a discendere fu del Vecchio, un omettino che nessuno, prima dell'accusa, aveva sospettato che fosse un leone capace di arringare la folla sulle barricate. Girava gli occhi come trasecolato. Non sapeva trovare una parola e non seppe trovarla neanche al processo. Accompagnati da molti carabinieri, si fecero passare in mezzo a due file di soldati a salire per le scale anguste, al primo e al secondo piano, disperdendoli per gli stanzoni anticamente occupati dalla Corte degli Sforza.
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