Io protestai. Dissi che non era possibile che ci fosse ordine di stringerci i polsi fino a farceli sprizzare di sangue. Mi si fece tacere, assicurandomi che alla stazione mi sarebbero stati allargati.
Chiusi nel carrozzone, credevamo di morire. C'era un fetore che dava il capogiro. La cella era angusta, buia, col sedile di legno cosparso di crostini di pane e coi fori per l'aria che parevano tappati. Il veicolo ci sballottava in un modo crudele. Quando le ruote sussultavano sui sassi o attraversavano i binari, ci sembrava che il carrozzone stesse per rovesciarci sulla strada.
Non abituati a questi viaggi di punizione, sognavamo il treno.
Alla stazione ci si fece discendere passandoci sotto l'ascella, a zig-zag, una catena che ci teneva uno dietro l'altro e ci impediva di pensare alla fuga.
Per scappare bisognava che il condannato si trascinasse dietro tutti gli altri.
Eravamo cosė male informati sul trasporto del bestiame di galera, che credevamo sul serio che ci avrebbero fatti viaggiare in un vagone di terza classe. Invece fummo disillusi non appena ci trovammo in quella specie di corridoio lungo due filate di celle.
A mano a mano che si saliva, si veniva spinti e incassati dal carabiniere che aspettava il condannato dietro l'uscio. L'operazione di cellularizzarci veniva fatta in un modo fracassoso. Si schiudevano gli usci con collera, si bestemmiava contro i catenacci che cigolavano senza andare avanti o indietro, si ingiungeva il silenzio con degli imperativi brutali a coloro che volevano sapere dove diavolo ci si mandava, e si sbattevano sulla faccia gli usci come tanti schiaffi ribaldi.
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