Rimanemmo per qualche minuto sbalorditi. Io mi trovavo in una cella di mezzo, tra Romussi e don Davide Albertario. Chiesi era in faccia al direttore del Secolo e io potevo vederlo, attraverso la ferriata, di profilo. L'avvocato Federici era in una delle prime celle della fila a destra e gli altri, compresi due che non conoscevo, erano sparsi nelle celle in fondo.
Aspettavamo con ansia che venissero a liberarci le mani indolenzite dal peso del ferro che diventava sempre più enorme.
Faceva un caldo eccessivo. Nella tana inverniciata il giorno prima, coll'uscio sulle ginocchia che non ci permetteva né di allungare, né di incavalcare le gambe, si respirava un'aria pestilenziale e si sudava come in un forno. L'indugio del treno a mettersi in moto era per noi un vero supplizio. Speravamo che, lanciandosi nello spazio, folate d'aria sarebbero venute ad attutirci la sete e a rinfrescarci la faccia.
Finalmente il treno si era mosso. La lentezza e le prime fermate ci fecero capire ch'eravamo attaccati a un treno omnibus. Il treno, che s'incammina adagio adagio e sosta a tutte le stazioni, diventa una tortura per i poveracci calcati nelle nicchie che lasciano respirare a disagio e intetrano l'ultima scena dei condannati sulla via della espiazione.
Invece delle buffate d'aria fresca che non venivano, né potevano venire, perché il nostro vagone era l'ultimo e aveva le aperture in faccia a due altri, fummo obbligati a incominciare una lotta disperata contro l'usciuolo dell'inferriara a scacchi, che si chiudeva e minacciava di soffocarci a ogni scossa.
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