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      Attraversammo il binario, continuammo lungo la linea ferroviaria fin quasi all'imboccatura di un tunnel e voltammo a destra, per lo stradone carrozzabile che i finalborghigiani chiamano delle "catene", perché è percorso dai galeotti che vanno e vengono dalla Casa di pena.
      I carabinieri ci stavano ai panni e ci incalzavano con degli avanti! È per loro il momento più trepido. Anche legati come cani, potrebbe saltare in testa a qualcuno di darsi alla fuga. Sprofondavamo i piedi nella polvere alta, sollevando un pulviscolo che ci imbiancava e ci andava per la gola e per le nari come un prurito che ci raddoppiava il malessere. Rasentavamo Capra Zoppa perseguitati da un'arsura indicibile. Ciascuno di noi sognava una sorsata di latte o un'altra chicchera di caffè per snebbiarci il cervello.
      Quando fummo a metà strada, al dorso di un parapetto, trovammo un giovine che aveva l'aria di un chierico e piangeva come un ragazzo. Forse sapeva chi eravamo o forse provava una commozione violenta dinanzi un prete alto e spalluto che passava incatenato come un grassatore.
      Dopo una ventina di minuti, vedevamo sorgere a destra la torre quadrata del malaugurato edificio nel quale dovevamo passare tanto tempo. Svoltammo il ponte, passammo tra mezzo alla folla, infilammo il viottolo tortuoso a sinistra e, dopo pochi passi, ci trovammo alla porta del reclusorio di Finalborgo.
      L'entrata è quella di un portone qualunque. Non dà l'impressione di una tomba di vivi, neppure pensando alle sentinelle di guardia.


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I cannoni di Bava Beccaris
di Paolo Valera
pagine 302

   





Casa Capra Zoppa Finalborgo