Si vedeva che eravamo proprio in una casa di pena. Ogni ìnfrazione al regolamento voleva dire andare sul tavolato di pietra incatenato alle mani e ai piedi.
Il capoguardia non ci fece cattiva impressione. Era alto, piuttosto magro, con una voce che faceva sentire il twang americano e con un accento leggermente meridionale. Valera lo battezzò subito per il Javert del reclusorio, per un Regolamento ambulante, per il funzionario che si sarebbe stroncata la vita piuttosto che violarlo.
E attraverso i mesi che siamo rimasti sotto la sua sorveglianza non abbiamo avuto occasione di modificare il giudizio valerano. Egli è rimasto, per tutti noi, l'uomo-regolamento, guidato da uno zinzino di buon senso. Prima di noi, in altre galere, egli aveva avuto sotto di sè Amilcare Cipriani e De Felice.
Per ammazzare il tempo e impedire agli amici di pensare che stavamo per diventare dei numeri di matricola, mi misi a narrar loro la fuga del principe Krapotkine dall'ospedale dei detenuti di San Nicola di Pietroburgo. Fu un grido unanime di protesta. Era una fuga che sapevano tutti a memoria. Sapevano della stanzetta al terzo piano dirimpetto all'ospedale, del violino che suonava che la via era libera e la carrozza di fuori ad aspettarlo, e dei passi guadagnati sulla sentinella coi famosi due lati del triangolo.
Entrò il capoguardia mentre don Davide e Federici, dall'alto del tavolato, cercavano di capire dalla finestruola da che parte dell'edificio penale ci trovavamo. Egli aveva in mano un opuscolo.
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