- Don Davide? Che cosa fate? Dormite?
Rispose con una voce cavernosa che non dormiva. Non aveva bisogno che un po' di calma per riaversi da tutte quelle emozioni che stavano per strangolarlo.
Fummo sorpresi dalla guardia con le scarpe di cimossa, la quale ci spiava in agguato.
- Silenzio! gridò imperiosamente il secondino.
Mezz'ora dopo venne il direttore a vederci, cubicolo per cubicolo, col cappello in testa e la voce che sentiva dell'uomo abituato a parlare coi galeotti. Così fu anche in seguito. Venne sempre nella nostra camerata col cappello in testa e col linguaggio dell'uomo che vuole essere temuto e vuole essere considerato un domatore di dannati alla galera.
Uscito il direttore dal corridoio, entrò nel cubicolo un pagliericcio di crine vegetale puntato, assolutamente insufficiente anche per un corpo mingherlino come quello di Romussi. Mancava ai piedi di mezzo braccio e bisognava addormentarsi sul fianco e con la faccia al muro, se non si voleva cadere sull'impiantito.
- Pane!
Trasalimmo.
Era un galeotto con la catena a parecchie maglie, accompagnato da una guardia, che andava di buco in buco a distribuire la pagnotta.
Il pane regio - come lo chiamavamo - parve a tutti noi immangiabile. Dovevamo avere fame, perché eravamo ancora con l'ultima costoletta e l'ultimo risotto che avevamo mangiato al Castello.
Romussi mi fece sapere che aveva divorata la sua pagnotta fino all'ultima briciola. Coi suoi denti da mastino e il suo apparecchio digestivo sempre in ordine, ne avrebbe mangiata un'altra.
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Davide Romussi Castello
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