Bisogna proprio essere aguzzini che gustano la voluttà dell'altrui sventura, per tenere degli infelici cento e più ore sotto l'impressione che il sesto della loro sentenza verrà consumata in una tana senza luce e senz'aria!
Nel cubicolo siamo rimasti due giorni e mezzo.
Durante questo primo periodo, non abbiamo visto che una ombra che passò dalla nostra cella con una parola per ogni buco: coraggio!
L'ombra era il cappellano.
Uscimmo storditi. Ci palpavamo la nuca e guardavamo il cielo come abbacinati. Erano bastati due giorni e mezzo per solcarci le guance e imbrutirci come gente che si levasse da una sbornia potentissima.
Ci scambiammo su per giù gli stessi pensieri.
- Credetti di morire, sapete. Mancavo d'aria: avevo bisogno di moto e di luce, soprattutto di luce, soprattutto di moto, soprattutto d'aria.
Don Davide aveva avuto delle nausee che lo avevano impensierito.
- Ci fu un momento in cui dovetti raccogliermi e pregare il Signore Iddio.
Costantino Lazzari aveva l'aria di uno smemorato. Si palpeggiava il collo e continuava a battere i piedi in terra come per ridar loro la circolazione del sangue.
Ci si condusse al passeggio in un cortiletto che sentiva del luogo. Non avevamo che uno spazio di pochi passi inquadrato da muraglie giallognole, scrostate e sbullettate. Col dorso verso la torricella, dalle finte finestre, che usciva da un angolo dell'edificio, vedevamo un largo verde di Capra Zoppa. La torricella era triste e ci ricordava che in essa erano le celle più orribili del reclusorio.
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