Don Davide pareva uno di quei preti descritti dal Porta. Colla veste piena di macchie, colle calze rotte, colle brache stralucide che perdevano, col nero, dei brandelli, e con la collarina inamidata da tanto tempo che lasciava vedere il giallo delle trasudazioni del collo.
Abituati al tovagliolo e alla posata lucente sul candore diffuso per la tavola, la mobilia della nostra sala da pranzo si riduceva a una lunga panca dalla quale sbucavano, di tanto in tanto, gli insetti rossicci che la povera gente chiama cimici, e a dei sedili di legno rotondi, le cui capocchie laceravano di frequente i calzoni dell'avvocato Romussi. Mettevamo la panca vicino alla seconda finestra e sedevamo quattro da una parte e tre dall'altra. Coi tozzi di pane sparsi qua e là lungo la panca, colla gamella fumante sul palmo della mano sinistra! e un moncone di cucchiaio di legno greggio col quale tentavamo di sbasoffiar via una pasta scondita o condita fino al disgusto, potevamo essere copiati per un mucchio di pitocchi di frateria che si scalda lo stomaco colla minestra del convento.
Ho parlato delle cimici, perché ne ho trovate dappertutto. Nei camerotti polizieschi, nelle celle del Cellulare di Milano, nelle stanze del carcere giudiziario di Genova e nello stanzone del penitenziario di Finalborgo. Dopo la condanna, il Turati occupava, al Cellulare, una stanza spaziosa e ariosa nell'esagono del secondo raggio. Io, De Andreis, Romussi e Federici passavamo parte della giornata con lui. Nessuno di noi poteva adagiarsi sul suo letto a pagamento, senza che venissero alla superficie filate di queste schifose bestioline che fanno pancia col vostro sangue.
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