Eravamo giunti tre quarti d'ora prima del treno. Ne ero contentissimo. Era dell'aria fresca guadagnata. I carabinieri, invece di chiuderci nella stanza di sicurezza, ci lasciarono sul margine del binario della stazione. Grazie! Ebbi tempo di fumare tre sigarette. In questo frattempo, vennero alla mia volta alcuni signori a domandarmi se ero il tale.
- Sissignori, risposi a colui che mi aveva interrogato.
I signori si tolsero il cappello e si curvarono leggermente.
- Scusino, dissi loro, commosso; ma io non li conosco.
- Non importa. Noi sappiamo chi è lei.
Rimasero lungo il binario fino alla partenza del treno, salutandomi con un'altra scappellata.
Il vagone cellulare del mio secondo viaggio apparteneva al tipo vecchio. Era composto di venti celle, divise da un piccolo corridoio longitudinale, con un largo all'entrata per i rappresentanti dell'arma regia.
Una volta entrati, si è sommersi nella penombra anche col sole allo zenit, perché non ci sono finestre alle pareti dei fianchi.
La cella era più angusta e più nauseosa di quella che mi aveva condotto nel reclusorio. Col sedile di legno e con le pareti insudiciate di sputacchi e di mucillaggine nasale, mi sentivo in una cassa da morto in piedi, con un traversino sotto il sedere. Il legno mi accarezzava dappertutto. I piedi stavano più male. Si trovavano sopra uno strato molle e viscido e non potevo alzarli. Per quanto facessi, non riuscivo a tener su le ginocchia sull'uscio. Si respirava l'atmosfera riscaldata dall'alito dei detenuti.
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