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      Di solito, diceva, ci si fa partire dal carcere alle quattro antimeridiane con una pagnotta di seicento grammi di pane stantio, e nessuno pensa più a noi se non all'indomani per darci un'altra pagnotta e rimetterci in viaggio. Se la si dimenticasse nel vagone o la si perdesse mentre si va dall'omnibus al vagone, felicenotte. Bisognerebbe rimanere digiuni fino all'altra distribuzione. Non si capisce perché il trasloco da una galera all'altra faccia perdere il diritto alla minestra.
      La gente onesta che viaggia tutto il giorno, quando arriva, si mette a tavola e si ristora con dell'acqua fresca sulla faccia e un buon pranzo inaffiato bene. Noi galeotti arriviamo, ci si registra e ci si chiude in una stanzaccia con quattro o cinque pagliericci in terra. Tutta la nostra consolazione è un secchio d'acqua nell'angolo, stato riempito magari il giorno prima. Quando sono nel penitenziario ho diritto, coi miei denari, a una spesa di cose mangerecce di venticinque centesimi. Perché il viaggio mi fa perdere questo diritto?
      E il condannato concluse dicendo che le giornate di traduzione sono, per il ventre del recluso, le più desolanti. Lo si dimentica.
      A Genova ci si fece discendere dopo che il treno si era vuotato. Ci dovevano essere, col nostro, altri vagoni cellulari, perché la "catena" si era ingrossata. Potevamo essere una cinquantina, compresa una reclusa. La donna, che aveva le mani slegate, non era trattenuta dal giro della catena comune. Ci seguiva. Era una donna brutta, bassotta, con tanti capelli neri e con le labbra sottili della sanguinaria.


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I cannoni di Bava Beccaris
di Paolo Valera
pagine 302

   





Genova