Malon parlava, e io mi perdevo negli occhi della nichilista, inondati di quella malinconia che va al cuore come una nota soave, al punto da farmi riprendere da una voce grave - una voce che mi insegnava che un socialista non deve contemplare una signorina viva come si farebbe con una figura sulla tela.
Seppi dopo molte cose di lei. Della sua agitazione, dei suoi studi, della sua prigionia, del suo sfratto dall'Italia, dei suoi amori, della Rivista Internazionale del Socialismo ch'essa pubblicava con Costa, della nascita della sua Andreina, delle sue tribolazioni, della sua laurea di dottora, della sua unione con Turati, della sua malattia crudele, ma non la vidi più che nel '95, cooperatrice e collaboratrice della Critica Sociale.
Nel '78 il mio pensiero si genufletteva alla bellezza. Oggi, esso si inchina alla pensatrice.
Migliaia di donne, in mezzo agli uragani della sua esistenza fortunosa, sarebbero naufragate cento volte. Anna Kuliscioff è sempre rimasta in faccia alle procelle come una sfida. Dagli avvenimenti che volevano inghiottirla, usciva sempre più forte, più saggia, più preparata a sgomberare la società del passato per far largo all'avvenire.
Neppure la sua malattia implacabile seppe vincerla. Di tanto in tanto si diffonde, tra gli amici, una notizia funebre. La Kuliscioff sta male - la Kuliscioff ha poco da vivere - la Kuliscioff è in fine di vita. E poi non se ne sa più nulla. Non si parla più del suo male implacabile. La si rivede, con la sigaretta in bocca, al tavolino dell'amministrazione o della redazione a lavorare come una negra.
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