Lo si vedeva andare in su e in giù, rasente le brande, colla grammatica sotto gli occhiali scintillanti, o chiusa con l'indice tra le pagine, con la sinistra sul collo della destra o cogli occhi che vagolavano per il soffitto come quelli dell'inspirato o dell'uomo che manda versi o prosa a memoria. Dopo la distribuzione del pane, la quale avveniva verso le ore otto, sedeva e si metteva di schiena al lavoro di traduzione, divorando un esercizio dopo l'altro, senza magari dire una parola.
E noi, fino a quando non si sapeva di che umore si era alzato, ci guardavamo bene dal buttargli l'amo della ciarla. Perché, malgrado la gentilezza e la squisitezza d'animo, il Federici era il compagno più difficile della camerata. Non si sapeva mai da che parte pigliarlo. Proprio nel momento in cui lo credevate il vostro migliore amico, poteva scattare per un nonnulla o vi poteva tappare la bocca con una di quelle parole solenni che arrivano alla testa come un pietrone, o vi poteva isolare per un tempo indeterminato, senza mai accorgersi della vostra presenza, anche se vi trovavate gomito a gomito o a faccia a faccia, allo stesso tavolo. Terminato il boicottaggio, risentivate l'amico che vi dava il buon giorno, che spartiva i suoi cinque centesimi di frutta con voi, che vi dava, se ne aveva, con la miglior grazia del mondo, un pezzo del suo cioccolatte eccellentissimo, o che si metteva con voi al passeggio, ingolfandovi in una conversazione piacevole e spesso istruttiva.
Il tempo che gli lasciava l'inglese lo consumava nella lettura.
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Federici
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