L'esercito non può fargli dimenticare che c'è della gente che soffre ingiustamente.
Don Davide: Vedremo.
Chiesi: Non si tratta di voi, don Davide. Voi siete qui per "fini speciali".
Don Davide intingeva la penna con un risolino, la piegava dolcemente sul pezzetto di carta che si teneva a destra, e si rimetteva a scrivere. Nessuno ha mai potuto leggere una riga dei suoi manoscritti. Ma dai discorsi si sapeva ch'egli riempiva le pagine di impressioni, di reminiscenze, di note autobiografiche, di vita giornalistica, di articoli di polemica e di sfoghi poetici.
La sua calligrafia non fa mettere gli occhiali. È nitida e arieggia l'inglesino. Non è quella dello scrittore che va via all'impazzata e lascia agli altri la briga di capirla. Se il pane terroso non gli aveva fatto peso o non gli aveva gonfiato il ventre, il pensiero gli si sgomitolava senza interruzioni. Giornalista col fondaccio letterario, gli piace, quando non è infuriato dalla rotativa, rifare il manoscritto, senza toccarlo troppo o levargli la naturalezza della prosa spontanea. Il suo stile è pastoso, la sua prosa calda, la sua penna duttile, il suo periodo limpido come un cristallo. Con qualche predilezione per la frase pariniana, rifugge dalle inversioni del poeta del Giorno, che svogliano il lettore. L'ingiustizia gli scalda il calamaio egli fa produrre una prosa vigorosa, senza ridondanze e senza i plebeismi del Baretti. Con o senza collera egli non è mai volgare. Il suo ingegno poliedrico fa pensare a don Margotti.
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