Federici, Chiesi e don Davide - il primo in mezzo e gli altri due in faccia - avevano una lampada a petrolio in comune sui loro due tavoli riuniti. Noi quattro ci servivamo della lampaduccia a luce elettrica, la cui poverezza di luce ci faceva chinare sovente gli occhi, o ci lasciava per due minuti sotto un rossore crudele. Migliorammo la nostra condizione quando a furia di guardarla ci accorgemmo che aveva del filo attorcigliato che ci poteva servire per allungarla fin quasi al tavolo.
Tutto sommato, erano ore deliziose. Il chiasso delle camerate vicine alla nostra cessava con la campana del silenzio. Salvo qualche gola che sprigionava versi da dannato o qualche voce che dava fuori nel sonno o qualche disgraziato che manifestava i suoi tormenti fisici con degli: oh Signor! femm murì, femm!, potevamo supporci in un sepolcro. Si poteva sentire la penna di qualcuno che s'impuntava sulla carta, o il piede di cimossa di un sottocapo in giro a origliare e a guardare attraverso i pertugi, o la respirazione di un recluso al di là della parete, male adagiato. Lo starnuto di Lazzari, fatto a bella posta per ricordarci che eravamo vivi, ci faceva trasalire o sussultare come quando si sentono sulle spalle le mani degli sconosciuti che vi dichiarano in arresto in nome della legge.
Si lavorava immersi nel lavoro. Chiesi a mettere in iscena i suoi ballabili, don Davide a scrivere una epistola dopo l'altra per vivere di ricordi e riallacciare i legami col mondo che lo conosceva. Lazzari a riprodurre il momento storico dei tre lavoratori con un disegno grandioso che toccava e ritoccava ogni sera senza dirlo mai finito, Ghiglione a illustrare le parole di un dizionario tedesco con l'idea froebeliana che chi legge Himmel accanto a una chiazza di cielo e Frau dinanzi a una testa di fanciulla, impara una lingua a vapore e non la dimentica più mai.
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