Domani ti dirò il resto. Addio.
CARO ARTURO,
Una mattina,appena i miei passi sfrusciano nello studio, la voce sorda, la voce che pare esca sempre dal fondo di una cantina, mi si insinua per le orecchie: Giorgio! Giorgio! Batto colle nocche all'uscio.
- Va a prendere due caffè e portaceli. Portaceli? O che adesso il mio signor padrone parla anche in plurale? Strada facendo mi commossi. Pensai che l'avvocato, per un sentimento generoso, volesse favorirmene una tazza. Brineggiava a tagliarmi la faccia. E le mie budella gelate provavano anticipatamente la gioia dal riscaldo.
- È permesso?
- Avanti, grullo. Apro o richiudo più che in fretta.
- Vieni avanti, sornione, Chiudevo gli occhi e mi saliva l'acceso alle guancie.
- Diavolo, hai paura delle donne? Tutti così i seminaristi.
Ma chi gli ha mai conficcato nella testa ch'io sia un seminarista? La signora, sentone, colla camicia che le discorreva dal seno, i capelli sciolti per le spalle nude, mi incoraggiò con un sorriso intraducibile.
Era la prima volta che vedevo una donna in quella acconciatura. Allungò due braccia pozzettate, rosee, che avevano della colonnetta, prese la tazza o con delle frignature la sorseggiò.
- GrazieM'inchinai. L'avvocato, sbattuto, gli occhi discigliati che piangevano dall'orlo rosso, la guardava di sottecchi.
- Fa freddo?
Si soffia sulle dita. I vetri della stanza erano appannati e l'acqua cha avevo versato nel catino fumava.
- Accendici il fuoco - va bene Giulietta?
Entrambi ringuainarono naso contro naso. L'uno beveva il fiato dell'altra.
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Giorgio Chiudevo Giulietta
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