- Sissignora.
- Bel nome.
- Piccino, fammi sotto la coltre. Dovevano piacerle i diminutivi. Miccino, piccino, carino.
- Fa proprio freddo stamattina?
- Freddissimo. S'inghiottì fino agli occhi, due brillanti che lampeggiavano sulle coperte.
- Ti piacerebbe essere in letto? Non ebbi il coraggio di rispondere. Allora si rovesciò piatta sulla schiena e come soffocata si scoperse di nuovo fino al ventre. La temperatura le marmorizzava la carne.
- Piccino, dammi lo specchio.
Si guardava nel cavo delle mammelle, ne premeva i capezzoli con delle aspirazioni di fiato e con ambo la mani le riuniva pelle contro pelle quasi a gustarne la satollità.
- Guarda, guarda cosa mi è venuto su, un furuncoletto.
- Sei buono di spremerlo senza farmi male?
Ero impigliato come un pulcino. Giravo le mani a destra e a sinistra senza entrarvi.
- Uh, come sono gelate! Mi provocava? Ti confesso che ho pensato alla storia di Giuseppe alle prese colla moglie di Putifarre. Ero deciso a non lasciarmi sedurre. Mi pigliò per un altro verso. Hai ancora la mamma.
- Se l'ho! Mi tramulò la voce.
- Le vuoi tanto bene?
- Più che a me stesso.
Vagolò cogli occhi sul soffitto come per ribere una gocciolina che voleva imperlarle il ciglio e si stiracchiò la persona a mani giunte. Che la passava per la mente? La mamma? "Dammi una cigaretta." Gliela porsi con un cerino acceso. Mi sorrise o parmi mi sorridesse. Ma in un altro modo. Di mezzo a quei suoi dentini ghiotti, serrati, aguzzi, che mettevano la voglia di sentirsi a morsicare, ci si leggeva un non so che di rincrescimento, un po' di mestizia.
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Giuseppe Putifarre Gliela
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