Ma sono fuori di questione. Non sono stato che un illuso. Ho creduto che venire a Milano colla volontà di guadagnarsi il morsello della vita, fosse un requisito sufficiente. Ho cercato, ho pregato, ho tempestato, ho annoiato la gente. O non si ha bisogno o mi si manda in santa pace perchè non ho documenti che mostrino ciò che ho imparato o fatto. I documenti di scuola? Poveretta! Mi ridono sul muso e torcono via la testa come se presentassi loro qualcosa di puzzolente. Venire a casa? A che fare, buona Ortensia? Non vi tocca vendere quella lingua di terra che ci dava un po' di verzura senza ritenere quotidianamente alla saccoccia, per pagare quella ventosa che ci ha succhiato tutto senz'essere sazia? Sapessi zappare, fare il villano, eh, manco male. Quello lì è mestiere che dà un tozzo di pan di meliga anche al nostro paese. Ma invece mi si è insegnato tutte cose che allontanano dai lavori paesaneschi. Non ho più l'età per addattarmi e per farmi accettare come apprendista. Se avessi speso il tempo in un'officina, credi tu che adesso non avrei almeno due o tre franchi al giorno? Ma i nostri genitori avevano delle ambizioni. E il papà poi! Volevano che il loro figlio c'entrasse per qualche cosa nel mondo ufficiale. Senza pensare che congiuravano contro l'avvenire del loro figlio. Impiegato! Orpello e null'altro. Li vedo bene questi tapini. Tirano via dietro le muraglie, con degli abiti patiti come le loro faccie e non si fanno vivi altrove. La loro vita dev'essere ufficio e casa, casa e ufficio.
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Milano Ortensia
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