Mi mise le su manine pulite addosso, mi sbottonò, mi buttò via i cenci fin dove era possibile e col solito linguaggio imperioso mi disse: lavati!
Per me che non toccavo acqua da qualche settimana, mi tuffavo e rituffavo la testa col piacere di un'anitra e mi sentivo rinascere.
- Fa a modo mio Giorgio. Levati anche la camicia che ti troverai contento.
Quel coso sconcio e sbrandellato non meritava certamente un nome tanto enfatico, ma lasciai correre. Me la tolsi e mi passai la sua che mi porse. Che buon odore di bucato, come mi sentivo fresco in quella tela fine. Mi andava giù fino alla caviglia e parevo uno spilungone lungo lungo, magro magro.
- Così.
E mi allacciò le stringhe che mi rinchiusero fin sotto al mento. Poi, con gesto da regina, mi obbligò e liberarmi dalle ciabatte scalcagnate e dai calzoni tenuti insieme non sapevo più da quale potenza misteriosa. Ma io esitava a snudarmi le parti più basse, anche perchè avevo perduto l'abitudine di portare le calze e le mutande. Replicò il gesto.
Finita la toletta, io che non avevo peli neppure quando mostravo la faccia al sole, pettinato e ripettinato da Rina, la quale si era inutilmente messa di proposito a strigliarmi i capelli arruffati, avevo della fanciulla, della collegiale - salvo, s'intende, il colore della pelle patita e l'incipienza del seno.
Non so come ma davanti allo specchietto minuscolo e quasi opaco risi del riso della buona Rina.
- E adesso? mi attentai a dire. Devo uscire in questa guisa?
- No, resterai mio prigioniero.
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Giorgio Rina Rina
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