In un quarto d'ora sbocconcellai e precipitai tutto nello stomaco affranto. Coll'ultimo boccone in bocca mi sentivo capace di pompare e di eseguire lo scellerato zin e zun tanto raccomandato.
Mi misi dietro con lena. A piedi nudi, le maniche e i calzoni rimboccati, attingevo, scaraventavo, saltavo sulle teste dei vasi, sdrucciolavo, mi ci perdevo fino alla cintola, risciacquavo, zunzunavo, riapparivo, riattingevo e ripetevo il gioco.
A sera io non sentivo più le braccia. Parava che qualcuno mi avesse legnato "alla più bella."
Appena sul pagliericcio, mi addormentai, morto dalla fatica.
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All'indomani discesi in cantina col principale. Un'aria gelata da sotterraneo e un buio fitto che mi lasciò incerto sull'ultimo gradino.
- Vieni avanti, marmotta.
Ma non mi fu possibile che quando mi rivolse una striscia scialba dalla lanterna cieca. A un certo punto, il fantasma che mi precedeva, accese un lampadino a cappelletta, appeso al filo di ferro che attraversava la cantina e le botti lumeggiarono di un chiaro che moriva e non moriva. Il mio padrone non lo vedevo più che per dei fili di luce che gli sgusciavano dietro la schiena.
- Giorgio, hai bevuto il grappino, questa mane?
- Nossignore.
- Lascia le cincischerie alla gente che porta i guanti. Io ho i calli sulle mani.
Trasse di tasca il bicchiere, lo mise sotto alla spina di una botterella che si perdeva nel seno di due altre colossali, scosse il liquido per abitudine, bevè e mi diede il resto.
Era la prima volta che mi mettevo nello stomaco tant'incendio.
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