Vera?
- Uh!
Girammo mezza Milano. Io aveva fuori la lingua come i cani arsi dalla sete e il carretto cominciavo a tirarlo a zig-zag.
- Voj, di' la verità, te pias a fa stoo mestee chi?
Rimasi un zinzino perplesso, ma pensando alla mistura del domani, risposi:
- Pœu gh'è minga mal.
- La va a abituas. Già, la caravana l'hoo fada anca mi, te de falla ti, l'han fada tutti. El bell el ven dopo. Tocca su el pass.
Mi parve un avvertimento. Difatti, la canaglia, si intascò bellamente le mancie e a me non diede che un taglio del suo sigaro e il suo corpo da trascinare a casa colla vetreria vuota.
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Non era meno faticosa la giornata nella stanza di lavorerio - l'officina della liquoreria. Mi toccava lavare e stralavare il panno dei filtri, specie di puff capovolti - dalle punte dei quali uscivano i liquori limpidi. Un lavoro di pazienza, ma noioso. Batterli, torcerli, rituffarli per batterli e torcerli di nuovo. Asciugati, appenderli ai cerchi di ferro, riempirli. Trevasare il filtrato nei cappucci più fitti, guardare attraverso i bicchierini se o no il liquore era atto alla bevitura e via via. Poi, intanto che assistevo allo stillicidio di cinque o sei capezzoli di lana, dovevo rompere la legna colla falce e incantonarla sul focolare. Appena cessava la lippemaniaca gocciolatura, accendevo un fuoco generoso, staccavo il papà dei paiuoli, vi rovesciavo dentro cinquanta chilogrammi di zucchero grasso e quasi nero e su sulla catena. Occorreva che si stesse lì addosso, a costo di bruciacchiarsi, per non lasciargli prendere l'odore di bruciato.
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Milano
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