E appena qualcuno di noi prendeva il fiasco di Tizio per quello di Sempronio, o lasciava cadere qualche goccia di spirito o di liquore, la voce del padrone scoppiava come un uragano. Si diceva un uomo rovinato, un galantuomo in mano ai ladri e agli assassini. Mi ricordo una volta in cui Buratton andò col piede addosso a un litro di "triduo." Il padrone divenne prima bianco come un panno di bucato, poi si rovesciò sul poveraccio con tale impeto di collera ch'io credetti lo strozzasse.
- Ma padrone? gli diss'io.
Mi ringraziò con un potentissimo schiaffo.
- Impara quand te see minga cercaa!
Quello sfacchinamento incessante, crudele, che mi profondava senza permettermi d'avere conoscenza del mio stato, mi aveva asciugato il corpo più ancora di quello che non l'avessero fatto le vuotaggini ventricolari. La metamorfosi si era completata o era lì lì per completarsi. Una faccia oblunga - ossea - dura nei lineamenti. Mi si vedevano le rientrature alle guancie - le rughe incipienti che sottolineavano gli occhi, le crispazioni visibili che incominciavano ad apparire sulla fronte e i capelli abbaruffati i quali aiutavano a dare il certificato che tutto si andava trasformando per non lasciare di Giorgio che un rachitico - cresciuto nel mondo opaco dell'ignoranza e dei patimenti.
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In dieci mesi di quella vitaccia, non mi lasciai trascinare da nessun appetito di gola. La colazione pencolò sempre dai tredici ai quindici centesimi. Quindici centesimi quando il freddo mi obbligava a mangiare la zuppa.
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Tizio Sempronio Buratton Giorgio
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