Aspettavo ogni giorno che una delle "poste" mi dicesse "ehi Giorgio, vi dispiacerebbe venire da noi? Guardate, noi si mangia qui alla buona, ma il giovine siede a tavola con noi ed è netto di biancheria. Aggiungete l'alloggio, venti franchi al mese, un po' di mancie... Via, non starete male." Ero la donnicciuola che divideva il terno prima dell'estrazione. Tutte le volte ritornavo a casa col mio carretto fiacco e disilluso, come qualunque ronzinante istupidito dalle cinghiate sulle orecchie.
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Un venerdì.... Maledetti i venerdì! Fin da fanciullo ho imparato a odiarli. Mi avevano insegnato di non far nulla in venerdì, perchè portano sventura. Un brutto venerdì del novembre che moriva, mentre la pioggia scrosciava in risate beffarde e i tuoni solcavano lampeggiando, distendo sulla carriuolata dei liquori la stuoia incerata, la allaccio ai quattro angoli, m'incappuccio la testa con un sacco e fuori dalla porta.
- Ti raccomando di non farmi una frittata. Va adagio! Mezz'ora più, mezz'ora meno.... Tanto dopo vai a casa.
Il cielo irruppe in una cannonata e a luce bianchiccia stralunò in mezzo al diluvio. Saltando i guazzi, cadevo nei rigagnoli gialli di poltiglia e m'inzaccheravo fino alla faccia. Sentivo i piedi nell'acqua che cercava l'uscita dal tomaio e i calzoni e la camicia molli sulla pelle, ma non rifugiavo in alcun luogo. Curvato sotto l'irruenza dei doccioni che mi inseguivano colla perfidia e l'insistenza d'un poliziotto, l'anima mia tripudiava e si levava fiera sfidando Giove Pluvio.
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Giorgio Ero Giove Pluvio
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