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      L'eco dei nostri passi, in quel silenzio, alto come la notte, si frangeva sulle muraglie dell'Arena, come l'addio di un moribondo.
      Svoltando la cantonata del corso Garibaldi, il mio angelo custode girò la cordicella su sè stessa e il sangue corse a rosseggiarmi il collo.
      - Non mi facciano alcun male. Sono un povero giovine....
      - Pellascia grama, va!
      Si udivano gli strascichi dei badili che caricavano e il ran ran trun trun dei carrettini a navate.
      Giunti che fummo nell'ufficio di via Pontaccio, venni salutato con un pugno sullo stomaco.
      - Vagabondo!
      Mi si slegò e con un calcio mi si urtò in uno stanzone scuro scuro che putiva di chiuso e di melma. Che c'è? Urtai in una secchia il cui liquido rovesciato mi strinse il naso. A tentoni, cercando nel vuoto, agguantai una tavola - un vero tavolazzo. Ero dunque nell'anticamera dei senzatetti. Mi butto sopra e ringrazio colla mente Iddio. Se non altro ero riparato dall'aria che fuori m'ingranchiva.
     
     
     *

      * *
     
      Dormivo forse da mezz'ora. Mi pareva di sognare. Sognavo che qualcuno mi stringeva maledettamente le natiche, senza che l'idea vaga mi desse forza di sottrarmi al sonno. Tuttavia, il dolore doveva essere vivo, poiché la mano si contraeva e tentava di agguantare. O non ero dunque solo sul tavolato? Mi spuntava l'interrogazione e mi risvegliavo con un urlo. Dio santissimo! Ma chi era? Piangete! Qualcuno mi aveva ladrescamente violentato. So d'aver vociato, d'aver pianto, d'aver chiamato in soccorso Gesù e la Madonna e le mia povera mamma, come so che non ascoltai che il catenaccio passato e ripassato stridendo e un trac! di chiave.


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Alla conquista del pane
di Paolo Valera
Editore Cozzi Milano
1882 pagine 237

   





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