Sfinito mi avvicinai a Ortensia e le presi la mano. Che mano fredda! Coraggio Ortensia! La scossi, la urtai, la chiamai, nulla, Essa rimaneva colla fronte affondata nella coltre, insensibile come la mamma. Incalzato da un presentimento, la risollevai. La sua testa penzolava come stroncata. Cacciai la mano sotto la sua fronte e misi i suoi occhi nei miei. Avevano del cristallo. Ortensia! Ortensia! Sulla sua bocca serpeggiava un risolino di scherno. Era morta!
Nella piena del dolore, la catalessi, le impiombava l'orologio della vita e ne arrestava il pendolo.
Non mi commossi, non parlai, non piansi. Versai due bicchieri di vino, li tracannai uno dietro l'altro, strinsi la mano ad Arturo ed uscii, salutato dal sole che ricompariva sulle alture.
Dal mio sfogliazzo.
Ho trovato il signor Gerolamo invecchiato d'una ventina d'anni. Non ha pił la faccia arzilla, gli occhietti illuminati, la persona diritta come una volta. Vicino a lui, si sente il cimitero. Smagrato, cadente, rattrappito, terreo, con una gran voglia di quiete. Me lo sono veduto, sdraiato in una poltrona che cammina sulle rotelle, impigliato in una veste di camera saettata di soli africani. Perchč tanto incendio di raggi sul sepolcro? Patisce la gotta - un malaccio che tocca ai signori - forse a ricordar loro che hanno mangiato e goduto troppo. Per farmi riconoscere, dovetti rammentargli dall'a alla z "Ah!" E non si risovvenne che spremendosi i cavalloni della fronte.
- Caro giovanotto, ho la memoria che mi serve assai male.
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Ortensia Ortensia Arturo Gerolamo
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