L'ufficio di segreteria era il pił elegante. Aveva del salottino di grande mantenuta. Scranne di canna, puff che risospingevano, poltrone che accarezzavano al disopra dei lombi, una dormeuse che pareva fatta a bella posta per una personcina ravissante, tutta nervi e tutta baci. Le incisioni, incorniciate a legno scolpito, raggiungevano la scollacciatura raffaellesca. Quelle facciucce di paradiso, che disegnano forme di cielo, in mezzo a dei veli celestiali, lasciano qualcosa per l'avvenire, l'uomo, vedendole, si sente crescere un interrogativo sul cuore. Il resto puzzava di burocrazia governativa. L'archivio, la ragioneria, la stanza del veterinario, il piazzale dei copisti, avevano dei mobili di noce massiccio. Scaffali, leggii, tavoli, armadī, sedie, scrivanie e che so altro.
Il mio posto era quello di copista. Secondo la raccomandazione del segretario io non doveva fare che quello che mi veniva comandato da lui. Viceversa poi, avevo tanti padroni quanti erano gli impiegati. L'archivista mi diceva: faccia piacere di copiarmi questo specchietto. Le raccomando le cifre chiare. Il ragioniere: mi trascriva questo rapporto. I pił esigenti, erano il cassiere e il veterinario. Il primo, un uomo foderato di grassa, con degli stivali che snodavano la sua truculenza, con dei baffi da ex sergente austriaco, con una voce che decretava, mi metteva sullo scrittoio delle lunghe tabelle che io copiavo fedelmente senza mai ricevere un grazie. Il secondo, colla petulanza delle sua laurea, passava da un ufficio all'altro, sbatacchiando usci, urtando scranne, dando ordini come un generale nell'esercizio delle proprie funzioni.
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