La stanza era impregnata d'un odore di stalla e di fienile che mi metteva nausea. Apersi la finestra - malgrado il mese di gennaio.
- Lasci chiuso. Se ha caldo esca. In i noster danee che paga, chi chi inscì.
- E semm nun i padron!
Ha trillato il campanello e io respiro. È il direttore accompagnato dal segretario. L'ingegnere Belchamè, lungo e magro come una pertica. Ha del cadavere e dal convalescente. Vestito di nero e inguantato di nero, mette tra gli ammutinati un po' di silenzio. Si leva il cappello a tuba e parla con voce fioca fioca.
- Signori, sono uscito dal letto or ora.... eh! eh! eh! perchè mi spiaceva questo fatto.... Eh! eh! eh!.... Perdonate, ho la tosse: il segretario vi dirà il resto.... Eh! eh! eh!
Il segretario era lì trasformato. Non era più l'omettino curvo sulla scrivania che affrettava, affrettava la penna d'oca, infilzando righe via righe senza mai cancellare una parola. Ma spiccava in lui il tribuno, l'uomo dai colpi audaci, il Wellington della battaglia burocratica.
- Signori soci. Dirvi il dolore che proviamo per questo malinteso non è possibile - perchè i grandi dolori sono muti come Laooconte nello spire dei serpenti. Ma credetelo, gli è crudele, sapersi onesti, avere la coscienza tranquilla, essere sicuri di avere adempiuto con zelo al proprio dovere e vedersi tacciati di... Ohimè! io non dirò la parola davanti all'ammalato. Io che fui e sono testimonio dei costanti sagrificî fatti da quest'onorando uomo che la vostra foga ha strappato al letto, io che ho dato vita a quest'istituzione, a quest'istituzione che gli anni faranno florida e che so, come la madre, le notti vegliate per slattarla e darle una esistenza rigogliosa, davanti a voi, davanti alle vostre minaccie, mi sento afflitto - dell'afflizione del padre che vede percosso il figlio.
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Belchamè Wellington Laooconte
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