Il mio stanzone era un po' pił chiesaiuolo. C'era il resto della storia del Golgota, sciorinata come nel negozio di un vetraio. In "ragioneria," una madonna monumentale che sorreggeva la verginitą del suo parto in un bamboccio sculacciato. Al disopra della cassa, Pio IX, col suo faccione rubicondo proiettato sul pettorale scarlatto, che spiava di sbieco una Naiade che cercava invano di ravvolgere nelle braccia le nuditą di un corpo gentile. In segreteria, si fiutava persino l'incenso. Era lą il luogo dove doveva convertirsi il Duca. Davanti al divanuccio, un Giuda al vero, strangolato all'albero, coll'ombra di Gesł Cristo in fondo, che usciva dalle volute cenerine per salire al cielo. E al centro della parete un colossale S.Antonio, protettore del bestiame e della societą d'assicurazione in ispecie. C'era dunque di che predisporre qualsiasi bigottone. Lo si aspettava da due ore frammezzo al silenzio certosino. Nessuno usciva dallo studiolo e nessuno faceva colazione per paura d'incontrarsi a tu per tu col personaggio.
Drin, drin, drin! L'elettrico d'entrata febbricitante, ci ha messo la penna tra le dita. Sarą lui, non sarą lui? Io aveva ordine di riceverlo dal portiere con un inchino e di farlo passare nell'ufficio del dottor Serafino con un salamelecco.
Era lui.
Un omettino macilento, bianco di capelli, con una faccia di cera, sbarbato, incravattato all'antica fin sotto alla pappagorgia, con degli occhietti di basilisco, sommersi nelle increspature, un labbro che mangia l'altro, che veniva avanti, gobbon gobbone, la tuba in mano - una tuba acciaccata che sapeva di straccairolo.
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