L'uno aspira come un mantice - l'altro soffia come un bue. Il ventinove pare un soffietto con rotto i fianchi, il trenta un affanno che piange - questi un lumicino lì lì per tuffarsi nell'olio - quegli il cigolio gemebondo di un arpione.
Dall'altra sala che io non vedo che di traverso, mi giunge un lamento fioco come l'eco che avalla. "Ohi-mè! Ohi-mè!" E quel malaugurato din-dilin-din din-dilin-din, della lavanderia a vapore? Mi pare d'avere un orologio a ripetizione nelle orecchie. Mi si insinua pei meati e mi scortica il cuore. Oh ma perchè non lo fate tacere, o signori dell'Ospedale, o gente che dormite tranquillamente nel silenzio profondo delle vostre abitazioni? Se sapeste che noia produce sugli ammalati quello strappo di campanello, che si disperde per le pareti come se fosse scosso da un moribondo in lotta colla morte. Oh soffocatelo, tappategli la bocca, stringetelo nelle vostre mani. Io non ne posso più.
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Un altro adesso! Ma che cosa hai piccino? È un imberbe che si sveglia e spalanca la bocca e grida cercando la mamma. Taci che mi fai male. Anch'io soffro e anch'io ho avuto una mamma e tuttavia non piango. "Ahi! Ahi!" fatti coraggio, pazienta, fanciullo. Vedi, se io potessi alzarmi, verrei a bagnarti con la pezzuola le labbra. Se avessi denari, ti comprerei un raspo d'uva per spremertelo chicco a chicco nella bocca che ti arde. Ma non ho niente e anch'io ho sete e non posso muovermi. Dunque coraggio e pensa che c'è un Dio.
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Ospedale Dio
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