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Dagli ampi finestroni intravvedo un filo che non è nè luce, nè ombra. Oh come volontieri tirerei una cannonata per farmi spazzar via l'ultima nebbia. Io sento un acre bisogno d'aria fresca che mi folleggi pei capelli, pel collo, sulla faccia. Un po' d'aria! Un po' d'aria!
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È incominciata la visita da una mezz'ora. Laggiù chi va e chi viene, chi corre e chi chiama. Veggo il gruppo "consulente" che passa nella sala S. Pietro e si ferma al 69. La scolaresca si divide in due mezzi cerchi. Io non scorgo che un angolo sprepontato del letto. Vedo delle teste che si muovono, delle mani che appaiono e scompaiono, ma non capisco di che si tratta. I malati hanno tutti gli occhi su quel punto fisso. "Ahi! ahi! ahi! Ah Signor! Oh el me car signor di poveritt!" Che cosa diavolo gli fanno? La notizia percorre di bocca in bocca. Gli hanno cavate le intestine e rimesse al posto. Che operazione! Basta, ora è fatta.
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Il paziente è il 73. Antonio corre col colabrodo di rame colmo di ghiaccio. Il malato è seduto sul letto. Io ne sfioro coll'occhio la superficie cranica. La vedo calare e risorgere come se qualcuno avesse bisogno di sprofondarsi negli abissi della sua gola. Addio testa! Essa discende e non sale più. Sono lì tutti silenziosi, inchinati verso il soggetto che è una pena a vederli. Respirano, respiriamo. Gli fanno sputare degli sgorbi di sangue con delle strisce nerastre e gli danno una cucchiata di ghiaccio.
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S. Pietro
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