- Quanta poveraglia, Giorgione. Guardateli: segaligni, ossei irrugginiti, saturi di questione sociale.
Più in su, un mercato di fanciulle e di donne rinculate sui deretani, sui nasi, sui piedi - le gambe e la braccia sparpagliate, attraverso la mammelleria disseminata, sbucante rovesciata. Che quadro, che quadro! Pelle moschettata di pillacchere come le pernici, pelle frumentata, bronzea, vizza, crespata, sigillata di lividure, imbruttita dall'avarizia, là distesa come un urlo.
- State comode, mie care, disse loro don Giovanni.
Passammo muti, compresi entrambi di quell'articolo di fondo vivo, palpitante che lasciavamo alle spalle come una rivoluzione.
- Credete in Dio, don Giovanni?
- Quale domanda, Giorgione!
- Credete?
E la sua bella faccia si avventò sull'orizzonte rabbuiata e dalle mani gli cadde il breviario.
Io glielo raccolsi.
- Prendete don Giovanni.
- Che me ne faccio?
- Ricordatevi della vostra teoria.
Se lo cacciò sotto l'ascella.
- È vero! Un travetto.
*
* *
Ci siamo. Una muta di cani ci saluta e ci annuncia con una scarica di urli disperati.
- Venga, venga don Giovanni. Creda, non ho più un'oncia di sangue. Io sono un povero diavolo alla malora.
- Eh, adesso!
- Tutto il mio bestiame muore come le mosche.
- Il male è in tutte le stalle?
- Soltanto in questa. Ma io paura, paura che vada anche nelle altre.
Mi passò il breviario e si svoltò le maniche.
La stalla era scurotta scurotta.
- Fateci dare un lume Marchini.
Don Giovanni drizzò in aria quel suo naso sfogato sfogato.
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