Cenci.... ma che cenci? Sbrendoli, sbrendoli che si sfacevano nell'agonia. Vedendoli stracciare la rotella che dava loro la religiosa - un vero culo di carne - io e il mio principale, corremmo subito a bere un cicchetto di grappa. Si sentiva immediato il bisogno di crollare con un po' di spirito, la miseria di tutta quella poveraglia sfinita e moribonda. Ma che cosa c'entra questa parentesi colla vita girovaga? Dunque dicevo?... che cosa dicevo? Ah! che a Castiglione delle Stiviere ci trovammo... Sicuro, ci trovammo al verde. Niente paura. Andammo al mercato, facemmo bollire una pugnata di zuccaro cucinato con dello zafferano per ingiallirlo in un vaso di latta, e, ben bollito, fumante, lo rovesciammo sulla pietra che io avevo egregiamente pulita. Indi con un coltello lo rivoltammo, lo rimpastammo e lo attaccammo all'uncino che per fortuna trovammo infisso nella colonna del portico. Eravamo divenuti l'ammirazione dei villani. Il mio padrone, le braccia nude, miagolando, lupeggiando, continuava a filare il nostro zuccaro, divenuto della lunghezza della piazza. Io, mano mano che me ne dava qualche metro assottigliato, ne tagliavo fuori tanti pezzi da un soldo e gridavo: "A che menta, menta fina! Tutta di zucchero filato! Alee! alee!
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Ci separammo quando scappò da Brescia colla moglie del mio ex principale, l'illustre medico-chirurgo. In quel burlone aveva potuto l'amore. Quel compatirla quando commetteva qualche stravaganza, quel salvarla tutte le volte che poteva, dai pugni massicci di Bastrini, quel ricorrere a lei per un bottone, quel dirle grazie per dei piaceri che tra noi erano doveri, fecero germogliare nell'uno e nell'altra, un amore che finì colla fuga.
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