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      Talvolta era una fanciullona che faceva vedere le cosce per sentirsi dire: belle! Amava la madre? Non saprei dirlo. Come non saprei dire se la madre amava la figlia. Beveva come suo padre e più di suo padre senza ubbriacarsi. Quando dormivamo nella stessa cuccia e lei aveva la vinaglia fin negli occhi, si metteva un pezzo di sigaro in bocca e fumava come un turco. Era allora che aveva per me delle tenerezze di donna fatta. Il padre, punto scrupoloso, se ne fece, come ho detto, una mogliera, sdraiandosi seco lei mentr'essa mangicchiava una mela.
      Mamma, mamma, esulta dal terriccio. Finalmente il tuo povero figlio è giunto al pedale del grand'albero burocratico. La sua cima va su astata a perdita d'occhi. Ma io non mi spavento. Io mi curvo e piagato accetto il nuovo cilicio. Lo accetto per te, buona mamma. Per te che ho amato più di me stesso.
      Oh alla perfine permettimi che in questa giornata, per la prima volta, io mi inginocchi sul tuo tumulo sconsolato a piangerti e a dirti che la tua immagine sopravvive alla bufera e che io la conserverò qui, nell'amuleto del cuore, bella e pura come l'ultima sera che mi hai dato l'ultimo bacio dicendomi addio.
      1870
     
     
     
      FINE
     
      Gli è così. Anche quando abbiamo la penna tra le dita siamo straccioni. Gli altri, quelli che hanno il ventre nel cervello e il cervello nel ventre, stanno lì a loro agio, colla testa in mano, ad aspettare il soffio ispiratore e sciupano intere settimane a limare, a pulire, a leccare i loro perioducci giulebbati e rachitici. Noi invece, incalzati dal tempo, violentati dal bisogno, tiriamo giù febbricitanti, nelle ore che rubiamo al sonno, cartelle sopra cartelle e le abbandoniamo ai combinatori madide d'inchiostro senza punto rileggerle.


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Alla conquista del pane
di Paolo Valera
Editore Cozzi Milano
1882 pagine 237