Io non mi valgo che di una seduta segreta avvenuta a Peterhof. Lo spavento era già nell'ambiente imperiale. Il granduca Alexis, zio dello Czar, aveva sentito per il primo la campana che il regno era agonizzante. I suoi dieci milioni di rubli erano già in cassa della Banca d'Inghilterra. Il granduca Sergio non aveva più membra tranquille. Egli era in ascoltazione. I minuti per lui erano sofferenze. I cavalli delle sue scuderie erano attaccati ai veicoli che dovevano portarlo in salvo e lui stesso non si coricava più che vestito. Lo Czar che aveva letto il 93 francese si era fatto fare degli usci nel suo gabinetto di lavoro e in certe parti dei suoi appartamenti per una fuga immediata, attraverso labirinti che mettevano alla caserma della pubblica sicurezza, dalla quale, in caso di pericolo, poteva precipitarsi a bordo del yacht imperiale Standard. Il panico e la temerità bolscevica erano in tutta la famiglia dei Romanov. Si sentiva vicina al supplizio.
La notte del 10 maggio 1916 fu tragica. A insaputa di tutti lo Czar aveva radunato i membri intorno al trono a Peterhof. Nessuno di loro aveva più fiducia nè nella polizia nè nella Duma. A presidente della seduta scelsero il decano dei granduchi, Mikaél Nicolaievitc, e a funzionare da segretario il granduca Costantino. Malgrado la stagione i presenti avevano freddo. Sentivano il momento. Lo Czar non si fece aspettare. Si alzò e descrisse la sua condizione di imperatore davanti alla Duma. Il suo presidente Mouromtzef aveva parlato chiaro in risposta al discorso del trono.
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