Kerenski rimase ostinato più di prima. Tuttavia, per l'insistenza del Comitato dei soldati, permise a una Commissione di esaminare le carte della Corte imperiale. Nulla! Nulla di compromettente! Bisognava supporre la coppia dei delinquenti imperiali bestie. Era troppo tardi.
Con la complicità del vecchio servidorame le lettere anonime, le denuncie, erano andate al falò. Le proteste del Soviet fecero arrabbiare Kerenski.
Per la maldicenza egli non faceva che "favorire" l'"assassino del popolo". Che fare? domandava ai colleghi di gabinetto. Abbandonarlo al Soviet era condannarlo a morte. I Soviets non volevano transigere. O processarlo o mandarlo via col Governo provvisorio. Kerenski prolungò il benessere di Nicola con una intervista e con l'esilio, nella speranza che con la famiglia imperiale in Siberia i sovietisti se ne sarebbero scordati.
Egli era di cuore e non voleva consegnare gli ex-sovrani alla "plebe". Bisognava portarli via, chiuderli in una zona siberica meno scellerata. Andava a Zarkoie-Selo in automobile e pensava alla bufera che si condensava su di lui. L'intervista era stata domandata dallo Czar, pauroso di esiliare a Tobolsk. Alla Siberia egli preferiva la Crimea, dove era morto suo padre.
- Io sono pronto, gli diceva lo Czar, a subire senza mormorii la sorte che mi serba il destino. Non mi spaventano nè la prigione nè l'esilio. Ma c'è mia moglie e ci sono i miei figli! Quali sofferenze per loro, quando si svolgerà un simile processo, suscitato dalle passioni politiche!
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