Dopo lui nel gabinetto Lenine va messo Anatolio Lunatcharsky, figlio di un consigliere di Stato di Mosca. Nel '98 fu tra gli accusati di propaganda rivoluzionaria. Due anni dopo è un sorvegliato dell'alta polizia. Arriva alla rivoluzione del 1905, tra un arresto e l'altro, tra un trasloco amministrativo e l'altro. Fugge. A Berlino conciona i profughi. Sosta a Parigi e passa il tempo fra lo studio e la conferenza di contenuto bolscevico. Scrive sul Proletaire.
Magro. Profilo emaciato del Cristo slavo. Sguardo velato e mistico. Artista. In mezzo alle statue e ai quadri la sua anima è come rapita. Non appena si sono bombardati i capilavori di Mosca ha sentito il bisogno di dare le dimissioni. "Mi è stato raccontato che la cattedrale di Basilio il Felice e la cattedrale dell'Assunzione siano state bombardate. Mi è pure stato raccontato che il Kremlino, ove sono ora i tesori artistici più importanti di Pietrogrado e di Mosca, sia stato anch'esso bombardato. La lotta accanita è giunta a un grado di odio bestiale. Non posso tollerare queste cose. La mia misura è colma. È impossibile di lavorare sotto l'impressione di pensieri che rendono pazzi. Ecco la ragione per cui io abbandono il Consiglio dei commissarii del Popolo".
Saputo più bene gli avvenimenti si è accorto che gli informatori avevano esagerato. Così mandò una lettera "agli operai, ai paesani, ai soldati, ai marinai e a tutti i cittadini della Russia per raccomandare loro di vegliare alle nostre ricchezze nazionali".
Tutti i membri del Consiglio del popolo sono passati per le carceri, per le polizie, per i gabinetti dei giudici.
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