Vi narrerņ due casi che non ho ancora dimenticati. Ero a Bologna al tempo del processo Luraghi, Favilla, Platner e non so chi altro. Il Luraghi era alloggiato nella mia stanza con altri e il Platner dimorava in infermeria perchč sofferente di non so quale incomodo. Erano le nove di una notte buia. Qualcuno di noi russava e qualcuno di noi si voltava sui fianchi per addormentarsi. Sentimmo un grido d'uomo spaventato o d'uomo colto da un malore.
- Guardia! guardia!
La guardia non era vicina o era altrove o non sentiva.
- Guardia! guardia!
La voce del detenuto era diventata rantolosa.
- Guardia!... guardia!...
Dopo un quarto d'ora di questo lamento che ci lacerava il cuore sentimmo dei passi che andavano verso la cella del disgraziato.
- Che c'č? gli domandņ la guardia.
- Sono ammalato.... muoio! Signore, fatemi morire!
- Adesso vado a prendere le chiavi.
Di notte le chiavi delle carceri sono in direzione. Nessuna guardia puņ aprire le celle. La parola lenta e straziante del disgraziato discendeva dal terzo al primo piano come un gemito che rimescolava il sangue.
- Muoio....
La guardia era in viaggio. Doveva discendere al piano terreno, passare una corte che non č mai finita, andare in ufficio, svegliare la guardia scelta in possesso delle chiavi e rifare la strada e le scale fino alla cella di colui che moriva.
Non esagero dicendo che ci vollero venti minuti. Le guardie, abituate a questi avvenimenti quotidiani o settimanali, ci fanno il callo.
Mezz'ora dopo sentimmo una moltitudine di piedi che discendeva e faceva tremare le pareti della scala come gente che portasse un peso enorme sulle spalle.
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