Fu una nota che diffuse un po' di tristezza in coloro che gli erano vicini. I carrettoni che li portavano al Castello erano nicchie che obbligavano gli ammanettati a stare con le labbra ai fori della respirazione.
Smontarono nel cortile ducale pallidi come cadaveri. Il primo a discendere fu Del Vecchio, un omettino che nessuno, prima dell'accusa, aveva sospettato che fosse un leone capace di arringare la folla sulle barricate. Girava gli occhi come trasecolato. Non sapeva trovare una parola e non seppe trovarla neanche al processo. Accompagnati da molti carabinieri, si fecero passare in mezzo a due file di soldati e salire per le scale anguste, al primo e al secondo piano, disperdendoli per gli stanzoni anticamente occupati dalla Corte degli Sforza. Lungo la ringhiera del primo piano, avevano messo Chiesi, Seneci, Cermenati, Federici, Valera, Lallici, Ghiglioni, Romussi. Al secondo piano, Lazzari, Valsecchi, Zavattari, qualche altro socialista, parecchi anarchici e il direttore dell'Osservatore Cattolico, il quale occupava la stanza N. 10, colla finestra sul tetto che gli lasciava entrare l'aria, il vento e la pioggia. Il primo temporale della seconda notte lo obblig̣ a salvarsi dall'acqua torrenziale che lo aveva sorpreso in letto in mutande.
I buchi al centro degli usci dei ventiquattro processandi permettevano di andare cogli occhi negli stanzoni in faccia, gremiti di arrestati. Davano a volte l'impressione di un immenso lazzaretto pieno di colerosi, e a volte di lunghi corridoi affollati di insorti che agitavano entusiasticamente i cappelli, i fazzoletti e le mani.
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