Alla mattina e alla sera, per esempio, venti o trenta forzati addetti ai lavori del reclusorio passeggiavano nel cortile sotto le nostre finestre. Il tintinnėo delle loro catene ci chiamava al davanzale, cogli occhi tra il cassone e la ferriata. E loro, passeggiando, con dei cenni rapidi, con degli inchini che nessuno, all'infuori di noi, poteva avvertire, con dei palpeggiamenti di berretta che parevan grattamenti di capo, con dei rovesci d'occhi che mi andavano al cuore, o dei movimenti di labbra che sfuggivano alla sorveglianza, ci salutavano, ci davano il buon giorno e la buona sera, ci infondevano coraggio e ci traducevano la loro impotenza a fare qualche cosa per noi.
La loro passeggiata era per me uno studio. Notavo il loro modo di andare in su e in gių e chiamavo Romussi e don Davide Albertario a constatare che il loro passo rivelava il galeotto. Dimostravo loro come un Jean Valjean avrebbe potuto essere scoperto dal segugio di polizia anche vent'anni dopo, vestito con eleganza, in una sala immensa affollata di signori che la percorressero conversando.
Si vedeva che il piede, il quale aveva l'anellone della catena appesa al fianco o attorcigliata intorno la caviglia, indugiava uno zinzino pių dell'altro a muoversi, e sfiorava assai pių il suolo del sinistro, come se l'uno dei due fosse carico di piombo. Aggiungevo un'altra osservazione sui passi. Nei passi č l'uomo che č stato in branca, cioč incatenato con un altro per degli anni e costretto a esercitare le gambe in uno spazio di pochi metri.
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Romussi Davide Albertario Jean Valjean
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