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      Il nostro barbiere era un altro omicida, condannato a trent'anni. Nel reclusorio sembrava mite, gentile, afflitto soltanto di trovarsi in mezzo a tanta zavorra umana. Era pallido, emaciato, colle sfumature, intorno gli occhi, degli individui che portano nei polmoni i bacilli della morte. I suoi colpettini di tosse mi davano la sensazione penosa di essere accanto a un moribondo. La sua faccia era repulsiva per la carne scrofolosa gualcita dal coltello anatomico, per le contrazioni che gli avevano lasciato il segno sulle guance scarne e sulle palpebre rosse e senza peli.
      Ci considerava uomini superiori e ci radeva con una delicatezza femminile, raccontandoci sovente il suo amore sventurato.
      A diciannove anni si era ammogliato con una giovane che ne aveva diciotto. Dopo la cerimonia nuziale la sposa gli raccontò che un altro - un "civile" - l'aveva delibata a tredici. Fu una notte burrascosa quella della sua confessione. La poveretta gli buttava le braccia al collo piangendo dirottamente e gli domandava perdono. La colpa non era stata sua. A tredici anni non si ha la testa e una ragazza si lascia saccheggiare della verginità come un viandante dai malandrini. Lui la consolò con una sfuriata di baci, impromettendosi di obbligare il "civile" a farle la dote. Chi rompe paga, era la sua morale. All'indomani andò a trovare il "ganzo" e a dirgli come stavano le cose. Il "civile" promise di pagare. Ma i denari non venivano mai. Allora ritornò a ripicchiare allo stesso uscio e a esigere la promessa.


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Dal Cellulare al Finalborgo
di Paolo Valera
Tipografia degli Operai Milano
1899 pagine 316