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      Col tendone legato alla sponda, non potevamo vedere, curvandoci, che i sassi o le pietre della strada e il lucido del mare conturbato quando lo rasentavamo. Eravamo pigiati, quasi l'uno sull'altro, ma rinfrescati, di tanto in tanto, da una buffata d'aria marina.
      L'impressione che si subiva era però più spaventevole di quella di essere chiusi nel carrozzone cellulare. Perchè quando il veicolo passava sui sassi metteva in rivoluzione le budella e quando sterzava pareva che stesse per riversarci nella via sottostante o nel mare.
     
     
      [vedi figura 08.gif: Passammo tra i commenti degli spettatori e filammo, in linea, per tre o quattrocento passi, fin dove ci aspettavano i veicoli.]
     
     
      A un certo punto, i cavalli smisero il trotto. La salita era divenuta faticosa e i vetturali facevano schioccare la frusta. Nessuno dei miei colleghi aveva mai fatto tappa al carcere giudiziario di Genova e così nessuno sapeva se era lontano o vicino. Dalla salita, credevamo tutti che fosse fuori, lontano qualche miglio dalla cinta cittadina. Mentre si facevano queste supposizioni, sentimmo le voci che fermarono i cavalli.
      La discesa fu più difficile. Uscendo dal buio, col fagotto nella mano legata con l'altra, e la catena intorno all'ascella tirata da quelli che precedono e seguono, si mette il piede sul predellino con la paura di scavigliare o di ruzzolare sul selciato.
      Nella luce dei lampioni foschi e delle fiamme libere dei becchi a gas delle botteghe che sembravano cave, ero come disorientato. Ci volle uno strappo di catena per convincermi che facevo parte del convoglio di galera.


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Dal Cellulare al Finalborgo
di Paolo Valera
Tipografia degli Operai Milano
1899 pagine 316

   





Passammo Genova